Seconda tappa per Chilometri diVini la nostra rubrica sui territori del vino a cura di Assunta Casiello, avvocato, sommelier e wine trotter. Con lei oggi visitiamo Villa Diamante e andiamo alla scoperta del territorio del Fiano.
Villa Diamante, la storia di un Fiano tra innovazioni e conservazioni, Villa Diamante ha restituito nobiltà e vigore al più apprezzato dei vitigni campani.
Il Territorio
Era il 1997 quando Antoine Gaita, belga di nascita ma italiano di adozione, carpì le potenzialità del territorio di Montefredane (Contrada Toppole), Avellino, dove una costante ventilazione ed un’importante escursione termica notturna avrebbero solo portato benefici alla composizione aromatica del suo fiano.
E così in 4 ettari, lungo la valle del fiume Sabato, Antoine ha portato con sé nel viaggio Belgio – Campania, tutta la cultura francese, dalle scelte di allevamento della vite, alla coltivazione del terreno, alle potature, finanche alle definizioni del suo vigneto, condotto in maniera biologica dal 2003, e caratterizzato da basse rese (fino ad arrivare ad appena 60 quintali per ettaro) e vendemmie tardive (non prima della metà di ottobre). Tutte scelte finalizzate a garantire la più grande concentrazione gustativa.
Sono due i cru di Villa Diamante. L’emblema è, per me, Clos d’Haut che insieme a Vigna della Congregazione, rappresentano davvero la “punta di diamante” del fiano (anche se il nome dell’azienda è un gentil rimando a sua moglie, appunto Diamante).
Clos in francese sta per “chiuso”, ovverosia la pratica molto diffusa, soprattutto in Borgogna, di delimitare con dei muretti a secco una parte, talora anche piccolissima, di un vigneto, facendola così diventare la migliore delle uve di quella parcella.
E questo “muretto” si trova proprio sulla sommità della collina meridionale di Montefredane, a circa 500 metri di altitudine, su terreni più sciolti e scuri rispetto ai suoli argillosi e pietrosi di Vigna della Congregazione posti, invece, a 430 mt.
La Degustazione
Di Clos d’Haut me ne parla direttamente Serena, la figlia, che insieme alla mamma Diamante e all’enologo Vincenzo Mercurio, portano avanti con la stessa dovizia e linea filosofica il lavoro di Antoine, purtroppo scomparso nel 2015.
Il “Clos d’Haut 2013”
Clos d’haut 2013 è stata quindi la prima e unica annata prodotta da lui, ed è uno dei vini più sorprendenti e difficili da descrivere che io abbia mai provato.
Nel 2012 Antoine aveva iniziato a sperimentare nuove forme di vinificazione dove si prediligeva l’uso di lieviti indigeni, quelli propri dell’uva (e non esogeni come accade per la maggior parte dei vini). Affinamento solo in acciaio.
Serena stappa la bottiglia e il calice ha già un suo imprinting: torbature ed affumicature sono le prime componenti che si dipanano nell’aria, in lontananza si svela un frutto ancora fragrante. Poi un turbinio di erbe officinali mi rimandano agli speziali monastici.
Il sorso, lo ricordo ancora oggi a distanza di mesi, è la sintesi di un’affascinante sublimazione. Da fluido infatti diventa materico al palato e la forte componente minerale rende la materia quasi pungente. Non ti dà il tempo di rasserenarti, cambia continuamente il suo timbro, lo fa ad ogni olfazione e ad ogni deglutizione. Unica linea costante è quel giro di do incessante verso la sapidità.
Non esistono eguali per questo fiano, ma una descrizione simile me l’ha senza dubbio portata qualche Chablis della Borgogna.
Vorrei darvi una stima delle bottiglie 2013 ancora in circolazione, ma non saprei, ai fortunati il privilegio di trovarle. Di certo vi consiglio di non farvi scappare la 2017 già in commercio (c.a 4.000 bottiglie ad un prezzo medio di c.a 25€) e tra poco preparatevi alla 2018 da accaparrarvi subito.
Io ci abbinerei una zuppa di pesce.
Il “Vigna della Congregazione 2013”
Vigna della Congregazione invece sta a Villa Diamante come Villa Diamante sta a Vigna della Congregazione. Vino e uomo diventano un unicum: è per questo vino che esiste l’azienda stessa.
Credo che la 2013 riporti un po’ alla tradizione del fiano di Antoine, se è possibile tratteggiare, pur nella diversità di ogni annata, dei lineamenti caratteristici. Calice luminoso, pulito, essenziale e “sano”, queste le prime emozioni che riprendo dal mio taccuino di quella degustazione. Si apre con una leggera carbonica: quell’odore di lambic che mi ricorda una Cantillon.
Il sorso è iodato, balsamico e agrumato. Non si stende lungo le pareti, ma è dritto, teso, e regala una beva leggera e coinvolgente. Resina e sandalo, leggo dal mio taccuino, in retronasale.
E’ il fiano di Villa Diamante!
Poco più di 4000 bottiglie in commercio, anche qui Antoine ha lasciato un gran bel lasciato, firmando il suo ultimo capolavoro.
In commercio oggi la 2018, con una produzione di 9000 bottiglia a un prezzo medio di c.a 25€. Questo è il vino della domenica in famiglia, e per me, dello spaghetto con le vongole.
La “Cuvèè Enrico 2007”
Le chiacchiere con Serena e Diamante avanzano, continuano in un crescendo di confidenze diventate già personali, amichevoli, e io mi svelo per il mio amore incondizionato verso una delle più magnetiche terre vitivinicole francesi (per me ovviamente) il Jura.
E così nel mentre che già progettiamo il prossimo viaggio da fare, Serena poggia sul tavolo una nuova bottiglia “Cuvèè Enrico” e non mi dice nulla.
Non è la solita 75 cl nella sua forma borgognotta (la tipica forma delle bottiglie utilizzate per il fiano), è una mezzo litro a stampo bordolese. Al calice è un liquido denso, oro fuso, una roteazione che svela la velocità di un bradipo nella discesa. E poi il naso … e in un attimo già sono a Chateau – Salon. “Ma questo è un Vin Jaune! Ma che genio Antoine! “
Il vin Jaune è l’emblema dei vini giurassiani, nasce da uve savagnin e prevede un affinamento a botti scolme (dunque quando il vino viene a mano a mano assorbito dalle botti, per effetto della micro-ossigenazione, non verrà colmato con altro vino. Tutto ciò creerà la formazione di uno strato sottile di lieviti sulla parte del liquido restante, che in Francia viene chiamata flor, e che proteggerà il vino dalle ossidazioni). E’ un vino unico nel suo genere, e speciale per me, e Antoine ne ha fatto una sua personale interpretazione partendo dal fiano.
Un esperimento che risale al 2000 quanto da un precedente esperimento (era un uomo, da quanto mi dicono ricco di inventiva ed estro) di affinare il fiano in legno, decise di “dimenticare” in cantina due di queste barrique. Dopo 7 anni, le botti erano scolme per oltre un terzo e il fiano era protetto dalla formazione della flor.
Da non perdere l’intervista di Alessandro Marra, bravissimo giornalista di Slow Wine, ad Antoine chiedendo lumi sul “Jura dell’Irpinia”. Vi lascio il link: Intervista SlowWine
Solo 700 le bottiglie prodotte, unico abbinamento possibile è con Miles Davis, preferibilmente il primo sorso richiederebbe almeno l’attacco di “Will You Still Be Mine”.
Finisce qui la mia degustazione onirica, perché se dovessi trovare una spiegazione empirica del perché i suoi vini sono l’emblema del fiano, non saprei trovarla, posso però assicurarvi che quello di cui ho scritto non è suggestione. E allora forse è più giusto lasciare ad Antoine la spiegazione del perché: “La vigna è la mediazione tra il suolo e la bottiglia. La capacità di un buon viticoltore deve essere quella di trasferire il terreno nel bicchiere, perché quello nessuno ce lo può rubare” Antoine Gaita.
Assunta Casiello
Persa negli effluvi nobili del vino da quando la maggiore età glielo ha consentito, curiosa di tutto ciò che è nuovo e che si può e si deve conoscere nella vita, ha speso gli ultimi anni a rincorrere ogni forma di fermentazione. Gli studi giuridici l’ hanno portata verso la terra, quelli enologici verso la felicità. Dopo una formazione all’AIS Milano per conoscere le coordinate da impostare oggi per lei la rotta è ancora tutta da scoprire.